CITTÀ DEL VATICANO — Gerusalemme, aprile dell'anno 30, mattina. Il procuratore romano Ponzio Pilato non ha fatto una gran carriera, se si trova a governare una regione, la Giudea, ai confini dell'Impero guidato allora da Tiberio. Non proprio hic sunt leones, ma quasi. La scena, probabilmente, ha luogo nel Palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale, vicino all'attuale porta di Giaffa.
Davanti al «pretorio», perché il procuratore lo giudichi, hanno trascinato un predicatore trentenne ebreo della Galilea, un rabbì di Nazaret, forse un rivoltoso, vai a sapere. Tale Yehoshua ben Yosef, nella forma abbreviata Yeshùa. Un'altra sentenza, una delle tante.
Pilato, in carica da quattro anni, non capisce quel popolo che disprezza, ricambiato. E non può immaginare che da quel giorno la sua scelta e il suo nome saranno legati al caso giudiziario più celebre e clamoroso della storia dell'umanità, da fare impallidire pure Socrate.
Un processo che si chiude in poche ore con la condanna alla pena capitale, nella forma più crudele e infamante: la crocifissione. Ma cos'ha fatto, per i suoi accusatori, Gesù? Quali sono i capi d'imputazione? Di che cosa viene giudicato colpevole?
La storia del processo a Gesù: perché è stato crocifisso?
La storia del processo a Gesù: perché è stato crocifisso?
Il Venerdì Santo è il giorno in cui si ricorda il processo e la condanna a morte di Gesù. Quali furono i capi d'imputazione? Cosa aveva fatto il rabbi di Nazareth, secondo i suoi accusatori? E di che cosa è stato giudicato colpevole?
Le fonti storiche e l'accusa falsa di deicidio
Duemila anni di analisi, migliaia di libri e interpretazioni spesso nefaste. La Chiesa cattolica ha le sue responsabilità, e sono enormi. Fino al Concilio Vaticano II è stata fatta gravare sul popolo ebraico l'accusa, insensata, di «deicidio», matrice dell'antigiudaismo che ha provocato secoli di persecuzioni e pogrom.
Come premette il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo libro Biografia di Gesù, è bene anzitutto citare la dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 28 ottobre 1965, che ha finalmente segnato la svolta della Chiesa: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Accusa insensata, anche perché in questa vicenda sono tutti ebrei: Gesù come i suoi accusatori, quelli che gridano «crocifiggilo!» come Maria, i discepoli, gli evangelisti (solo su Luca c'è qualche dubbio, la tradizione parla di origini pagane, ma si ritiene più probabile fosse un ebreo ellenista di Antiochia), la comunità cristiana primitiva. A parte Pilato: che era l'unico, in quanto procuratore romano, a poter decidere la pena di morte.
E poi la ricostruzione storica non è facile. Il processo è attestato nelle Antichità giudaiche (XVIII) dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che in un passo cita Gesù e scrive: «Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall'inizio lo avevano amato». Anche lo storico romano Tacito, negli Annali (XV), scrive dei «tormenti atroci» inflitti da Nerone ai cristiani e spiega che questi «prendevano il nome da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio».
Per il resto, le sole fonti sono i quattro Vangeli, che tuttavia non sono stati scritti con un intento storico, leggono gli eventi alla luce della fede nella resurrezione di Gesù e si rivolgono a comunità particolari (Marco a un ambiente di origini pagane, Matteo a giudeo-cristiani della diaspora ellenistica, Luca al mondo greco-romano, Giovanni a quello greco) che spesso hanno rapporti difficili e polemici con l'ambiente ebraico dal quale si sono distaccati.
Ne è un esempio la relativa indulgenza con la quale è descritto Pilato. Filone d'Alessandria, grande filosofo ebreo dell'epoca, ne offre nel De Legatione ad Caium un ritratto un po' diverso: «Un uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate».
Giuseppe Flavio sempre nelle Antichità giudaiche, racconta le stragi di popolo ordinate da Pilato ai suoi soldati.
L'accusa e il primo processo davanti al Sinedrio
Comunque, nel racconto degli evangelisti i processi sono due. Il primo si celebra davanti al Sinedrio, parola greca che significa consesso, assemblea. Ad Atene era il collegio costituito da un magistrato e dai suoi assessori. Nella Gerusalemme del tempo era l'organo politico-religioso responsabile della amministrazione giudaica, molto relativamente autonoma, riconosciuto ma dipendente dall'autorità del potere romano occupante. Era composto da settanta membri più il sommo sacerdote che lo presiedeva. Vi erano rappresentate tre classi: i sacerdoti, gli anziani che appartenevano ad una sorta di aristocrazia laica e terriera e come in sacerdoti erano sadducei, di orientamento conservatore; e infine gli scribi, gli studiosi farisei, più aperti e progressisti, a dispetto della rappresentazione che ne fanno i Vangeli.
Nella notte del tradimento di Giuda, Gesù era stato arrestato nel podere detto Getsemani, «frantoio per olive», da una «folla con spade e bastoni» mandata dalle autorità del Sinedrio. Viene condotto davanti all'ex sommo sacerdote Anna e poi dal genero Caifa, sommo sacerdote in carica e quindi capo del Sinedrio. È a casa di Caifa che avviene la prima assise. I quattro Vangeli variano nel racconto, ma la sostanza non cambia. All'inizio lo accusano di aver detto «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», frase che peraltro Gesù aveva riferito a se stesso e «al tempio del suo corpo», nota Giovanni. Ma il momento decisivo è quando Caifa gli chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Il Vangelo più antico, quello di Marco, che si ritiene scritto prima della distruzione del Tempio nel 70 a.C., riporta la risposta dell'imputato: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È a questo punto che il sommo sacerdote si straccia le vesti e esclama: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E l'assemblea del Sinedrio risponde: «È reo di morte!».
Quella di Caifa non è una reazione isterica, lo stracciarsi le vesti è un gesto rituale davanti a un'ignominia. Ma che ha detto Gesù di così grave? Ha risposto di essere il Messia atteso da Israele (Mashiah, «unto» con l'olio sacro e quindi consacrato: in greco Christós, Cristo) e, quel che è peggio agli occhi del Sinedrio, lo ha fatto citando un passo del profeta Daniele (7) che presenta nel «Figlio dell'uomo», una figura non solo terrena che partecipa misteriosamente alla natura divina. Ma c'è di più. Il testo originale greco di Marco riporta come risposta di Gesù «egò eimi», che in genere viene tradotto «io lo sono» ma alla lettera significa «io sono»: la stessa risposta di Dio quando Mosé ne chiede il nome, rivolto al roveto ardente sul monte Oreb, il tetragramma YHWH (Jod, He, Waw, He) che gli ebrei non pronunciano. «Il vangelo sfocia in questa sua autotestimonianza, che risolve ogni mistero e sarà causa della sua condanna», scrive il grande biblista gesuita Silvano Fausti nel suo commento a Marco: «Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per questa sua rivelazione».
Lo nota pure Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret: «Non vi risuona forse Esodo 3,14?». In effetti. Per il Sinedrio ce n'è abbastanza, ma l'assemblea non ha il potere di emettere sentenze. Così Gesù viene portato da Pilato.
Il secondo processo davanti a Pilato
Dal Sinedrio al praetorium, il luogo del giudizio. Nel Vangelo di Luca si dice che Pilato, diffidente, cercò invano di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea, che rimandò indietro l'imputato. In ogni caso, per ottenere la condanna, al procuratore romano della Giudea viene presentata dai rappresentanti dell'assemblea un'accusa più politica: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Sarà la motivazione finale della condanna, che veniva apposta sul braccio verticale della croce come monito per chiunque volesse ribellarsi al potere romano: «Il re dei Giudei», l'acronimo INRI che nella lingua latina dell'impero si ritrova in innumerevoli dipinti e sculture: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum».
La versione di Marco è la più asciutta. Pilato chiede: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato insiste, Gesù non risponde più nulla. Ma a Gerusalemme sono i giorni della Pasqua ebraica, per la festa il procuratore «era solito rilasciare un prigioniero» e in quel momento c'è anche tale Barabba, «si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio», insomma un rivoluzionario politico vero, probabilmente uno zelota. La scena è celeberrima: Pilato si rivolge alla folla, «volete che vi rilasci il re dei Giudei?», ma la folla «sobillata dai sommi sacerdoti» invoca invece Barabba. E a Pilato che domanda cosa fare di Gesù, «che male ha fatto?», la folla risponde: «Crocifiggilo!».
Il «crucifige!»
E qui c'è un problema serio: chi invoca Barabba e chiede la crocifissione di Gesù? Marco, il testo più antico, parla di «óchlos», in greco la «folla» o «massa», appunto, un gruppo di persone formato probabilmente da sostenitori di Barabba. È il solo Vangelo di Matteo a parlare di «laós», che significa «popolo» o «nazione». Tutti i maggiori biblisti e teologi sono d'accordo: è un'esagerazione di Matteo. Anzi, «un'amplificazione fatale nelle sue conseguenze», nota Joseph Ratzinger, che nel suo Gesù di Nazaret chiarisce: «Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo a chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco».
Se Marco parla di folla, Giovanni indica i «giudei» nel senso dell' «aristocrazia del tempio», Benedetto XVI è definitivo: «Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell'amnistia pasquale, si associa ad essi la “massa” dei sostenitori di Barabba». Resta, storicamente, la tendenza dei primi cristiani «ad attenuare le responsabilità di Pilato e a marcare quelle giudaiche», come nota Ravasi. Matteo soprattutto, il più polemico con i suoi connazionali, il quale riporta la scena del procuratore che se ne lava le mani e dice: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!». E aggiunge - anche qui, solo lui tra gli evangelisti - la risposta del «popolo», cui arriva a far dire: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli».
Resta soprattutto il fatto che la responsabilità della sentenza di morte è del procuratore romano, Marco scrive: «Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso».
L'esecuzione
Gesù viene consegnato alla guarnigione romana per essere flagellato. È il racconto della Passione che in buona parte del mondo, il Venerdì Santo, scandisce la Via Crucis. I romani usavano un flagrum a corde grosse con pezzi di osso e di metallo. La derisione, le torture. Nella salita al Golgota, i soldati fermano un tale Simone di Cirene perché porti il patibulum, l'asse trasversale della croce. Quello verticale è già piantato sul luogo dell'esecuzione. Il condannato viene appeso alla croce, inchiodato per i polsi. La parola greca agonía significa lotta, per un crocifisso è lunga e dolorosa. Alla fine, un soldato tende a Gesù agonizzante una spugna intrisa di «aceto», in realtà un vino mescolato con acqua che soldati e mietitori usavano per dissetarsi: quello che popolarmente appare come l'ultimo gesto di scherno potrebbe essere invece un gesto estremo di pietà. «Tetélestai», è l'ultima parola di Gesù riportata da Giovanni: «”Tutto è compiuto”, disse. E, chinato il capo, spirò».