La responsabilità per l’infortunio di un lavoratore caduto da una scala a pioli

La responsabilità per l’infortunio di un lavoratore caduto da una scala a pioli

11/05/2023

Infortunio mortale di un lavoratore durante i lavori in quota: tutte le violazioni contestate al datore di lavoro e rientranti nella sua area di governo erano suscettibili di realizzare la concretizzazione del rischio che le stesse miravano a prevenire.

Riguarda questa sentenza della Corte di Cassazione l'infortunio mortale occorso a un lavoratore durante alcuni lavori di ristrutturazione di un immobile perché caduto da una scala a pioli sulla quale si trovava a causa dell'urto subito da un camion utilizzato per lo scarico di materiale in cantiere. Al datore di lavoro, quale garante della sicurezza del lavoratore, erano state contestate diverse violazioni in materia di sicurezza sul lavoro e in particolare l'omessa previsione del rischio interferenziale, l'omessa vigilanza sull'operato del lavoratore, la violazione della prescrizione del medico competente che aveva vietato al dipendente di effettuare lavori in quota per essere affetto da diabete, l'inidoneità della scala a pioli priva della gabbia di protezione, il mancato impedimento ai mezzi di accedere in prossimità della scala e la mancata previsione di una idonea impalcatura per la lavorazione in quota, violazioni tutte rientranti nella sua area di governo e suscettibili di realizzare una concretizzazione del rischio che le stesse miravano a prevenire.

La Corte di Cassazione, alla quale era ricorso il datore di lavoro, non ha individuato nella sentenza impugnata il vizio di motivazione sul rapporto di causalità lamentato dalla difesa e anzi ha ritenuta pienamente provata invece l'esposizione del lavoratore a specifici fattori di rischio causati e concretizzatisi a seguito delle violazioni contestate al ricorrente e ha rigettato il ricorso e condannato lo stesso al pagamento delle spese processuali.

Il fatto, l'iter giudiziario, il ricorso per cassazione e le motivazioni.

La Corte di Appello ha confermata la pronuncia emessa dal Tribunale con cui il rappresentante di una società, ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 589 cod. pen., è stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione. Allo stesso era stato contestato, in qualità di datore di lavoro, di avere cagionato la morte di un lavoratore dipendente che, mentre era intento ad effettuare una lavorazione in quota, era precipitato da una scala sulla quale era salito a seguito di un urto con un camion che doveva scaricare del materiale nell'area di cantiere. In particolare, gli era stata addebitata la violazione delle norme antinfortunistiche riguardanti la formazione del lavoratore e l'omessa adozione di precauzioni in grado di prevenire le cadute dall'alto. Il ricorrente, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso, ha addotto una violazione e una falsa applicazione dell'art. 41, comma 2, cod. pen. nonché una manifesta illogicità della motivazione e il P. G. con requisitoria scritta ha concluso per la sua inammissibilità.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

I motivi di doglianza sono stati ritenuti infondati dalla Corte di Cassazione che ha pertanto rigettato il ricorso. La stessa ha ribadito che la Corte di Appello, condividendo la ricostruzione operata dal Tribunale, aveva confermato il giudizio di primo grado in ordine alla responsabilità del prevenuto per il reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche (artt. 122 e 36 del D. Lgs. n. 81/2008).

 

I rilievi del ricorrente, secondo la suprema Corte, hanno svolto prevalentemente censure in punto di mero fatto e come tali non consentite in sede di legittimità non potendo essere rivalutato in tale sede il compendio probatorio in senso alternativo o diverso rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito; l'intervento del giudice di legittimità, infatti, ha aggiunto, è limitato a compiere una valutazione di adeguatezza logico­ giuridica del percorso argomentativo adottato nella sentenza impugnata. Sotto questo profilo la Sezione IV ha ritenuto che il provvedimento in discussione andasse esente dalle critiche sollevate dal ricorrente e che i motivi dedotti fossero risultati comunque reiterativi di profili di lamentela già valutati dai giudici di merito e disattesi con una congrua motivazione.

 

La suprema Corte ha inoltre richiamata la dinamica della vicenda secondo la quale nell'area di cantiere, nel quale erano in corso lavori di ristrutturazione di un immobile, il conducente di un autocarro, intento a scaricare materiale da allocare nell'immobile commerciale in fase di ristrutturazione, aveva parcheggiato il veicolo in cima ad una rampa, alla base della quale operava il lavoratore issato su una scala; l'autocarro, pur con il freno di stazionamento azionato, aveva perso aderenza, andando così ad urtare contro la scala e determinando la caduta del lavoratore.

 

Dal ricorrente è stato sostenuto, con un primo motivo, che la condotta del conducente del camion, il quale aveva lasciato il veicolo in sosta senza assicurarsi che fosse ben stazionato, avesse interrotto il nesso causale, atteggiandosi a causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento ma il rilievo stesso è stato ritenuto dalla suprema Corte privo di fondamento. Invero, il ricorrente, nella sua posizione di garante dell'incolumità del lavoratore, avrebbe dovuto verificare la sicurezza dell'area di cantiere, valutare eventuali rischi interferenziali e prevedere per i lavori in quota adeguate opere provvisionali in grado di scongiurare rischi di caduta (art. 122 del T.U. di sicurezza). La scala sulla quale si era issato il dipendente fino ad un'altezza di oltre sette metri, ha così sottolineato la Corte di Cassazione, era inidonea all'uso in quanto dall'art. 113 del D. Lgs. n. 81/2008 è previsto che le scale a pioli di altezza superiore a 5 m, fissate su pareti o incastellature verticali o aventi una inclinazione superiore a 75 gradi, debbano essere provviste, a partire da 2,50 m dal pavimento o dai ripiani, di una solida gabbia metallica di protezione avente maglie o aperture di ampiezza tale da impedire la caduta accidentale della persona verso l'esterno; è prevista inoltre una disciplina nella viabilità dei cantieri e l'obbligo di recinzioni aventi caratteristiche idonee ad impedire l'accesso agli estranei alle lavorazioni.

 

Lo stazionamento di un autocarro in prossimità della scala sulla quale si trovava il lavoratore non poteva comunque considerarsi, secondo la suprema Corte, evento eccezionale ed assolutamente imprevedibile: il datore di lavoro inoltre avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza dell'area, verificare la presenza di altri lavoratori sul cantiere, impedire l'accesso in prossimità della scala e comunque prevedere un'idonea impalcatura per la lavorazione in quota. Né è apparsa decisiva la circostanza che il lavoratore abbia ricevuto l'incarico di salire sulla scala dal committente dei lavori: tale circostanza anzi ha reso maggiormente evidente l'assenza di vigilanza da parte del datore di lavoro o di un suo preposto.

 

Peraltro, il dipendente, a causa delle sue condizioni fisiche, essendo affetto da diabete, non poteva essere adibito a lavorazioni in quota avendo il medico espressamente prescritto al lavoratore il divieto di lavorare in altezza perché affetto da diabete, con una valutazione glicemica di 130 milligrammi per litro, e di conseguenza a rischio di un calo glicemico di una iperglicemia che poteva essere causa di perdita di equilibrio e di caduta a terra.

 

Dalla Corre di Cassazione in conclusione non è stata ritenuta carente la sentenza di merito avendo la Corte d'appello osservato che, ove fosse stata prevista un'impalcatura per consentire l'accesso in quota del lavoratore, l'infortunio non si sarebbe verificato. Tutte le violazioni individuate dai giudici di merito (omessa previsione del rischio interferenziale, omessa vigilanza, violazione della prescrizione del medico competente che aveva vietato al dipendente di effettuare lavori in quota), rientranti nell'area di governo del datore di lavoro, erano suscettibili di realizzare la concretizzazione del rischio che tali disposizioni miravano a prevenire.

 

La Corte di Cassazione in definitiva, che non ha individuato nella sentenza impugnata il vizio di motivazione sul rapporto di causalità lamentato dalla difesa e che ha ritenuto anzi pienamente provata e determinante l'esposizione del lavoratore a specifici fattori di rischio causati e concretizzatisi a seguito delle violazioni commesse dall'imputato, ha rigettato il ricorso presentato dall'imputato e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali.

 

 

Gerardo Porreca