| Buongiorno. Stamattina alle 9 Mario Draghi sarà alla Camera per annunciare la fine del suo governo. Poi, dopo una riunione del Consiglio dei ministri, salirà al Quirinale per rassegnare, stavolta definitivamente, le dimissioni. A quel punto il presidente della Repubblica scioglierà le Camere, dopo rapide consultazioni con i loro presidenti. Voteremo il 25 settembre — data che sembra tornata possibile nonostante la festività ebraica, ovviamente col consenso della comunità interessata — o più probabilmente il 2 ottobre. Si chiude dunque — dopo 522 giorni — una stagione politica straordinaria. Il trentesimo presidente del Consiglio della storia repubblicana ha preso in mano il Paese il 13 febbraio 2021, su mandato di Sergio Mattarella e con l'impegno davvero patriottico di tutti i principali partiti — 5 Stelle, Lega, Pd, Forza Italia e Italia Viva — tranne Fratelli d'Italia. Questa maggioranza improbabile ha retto per 17 mesi, e si è fatta guidare da Draghi attraverso emergenze eccezionali — pandemia, crisi economica, guerra in Europa — affrontandole con successi significativi, elogiati in tutto l'Occidente. L'unità nazionale, dopo mesi di sussulti e minacce, è però finita ieri quando tre di quei partiti — 5 Stelle, Lega e Forza Italia — non hanno votato la fiducia al premier. Sul piano tecnico-numerico la fiducia del Senato c'è stata — con soli 95 voti — ma il gesto politicamente abnorme compiuto da Conte, Salvini e Berlusconi ha chiuso la partita. Da ieri sera, grillini e «centrodestra di governo» si palleggiano la responsabilità di una crisi ormai irreversibile. I 5 Stelle dicono che a decretare il game over è stata la richiesta dei capi di Lega e Forza Italia di fare un nuovo governo senza di loro; leghisti e berlusconiani ricordano che il detonatore è stato azionato da Conte, con la sconcertante scelta di non votare, giovedì scorso, la fiducia sul decreto Aiuti. D'accordo, grillini, leghisti e berlusconiani, solo nell'insinuare che Draghi si sarebbe fatto sfiduciare apposta, semplicemente perché aveva ribadito che per governare non poteva accettare le loro richieste inaccettabili. Ma le impronte digitali di tutti e tre sono evidenti all'esame della nostra scientifica, due analisti di cui i lettori del Corriere conoscono da decenni equilibrio e pacatezza. Marzio Breda: «Dimissioni irrevocabili, stavolta, dopo la grottesca giornata di ieri, che ha offerto ai cittadini un test del livello di irresponsabile ambiguità di alcuni partiti. Quelli che, dai 5 Stelle al centrodestra, non hanno avuto il coraggio di cacciare Draghi, pur volendolo perché già preda di convulsioni pre-elettorali, e hanno fatto perciò ricorso a dei bizantinismi procedurali di un livello davvero infimo». Massimo Franco: «La nemesi di un populismo in declino sta portando alla caduta del governo di Mario Draghi. Apripista di una crisi surreale è stato il M5S, con il no di sei giorni fa alla fiducia sugli aiuti alle famiglie. Ma a dare il colpo di grazia è stato l'altro populismo, che pure è parte della maggioranza: quello del centrodestra». Ma come si è arrivati a un epilogo che preoccupa l'Europa e il mondo, tranne dove si brinda a vodka? Il discorso di Draghi Il presidente del Consiglio si era presentato al Senato con l'intenzione di ottenere un chiarimento definitivo: andare avanti sarebbe stato possibile solo se i partiti avessero stretto un nuovo patto, e sottratto il premier alla loro guerriglia pre-elettorale. Il senso: ci sono cose che si devono fare e altre che non si possono fare, e io posso governare solo se vi impegnate sulle une e rinunciate alle altre. Questi i punti chiave di quello che a questo punto diventa il testamento politico di Mario Draghi (qui il testo integrale):
- Le cose fatte «Lo scorso anno l'economia è cresciuta del 6,6% e il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è sceso di 4,5 punti percentuali. La stesura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha avviato un percorso di riforme e investimenti che non ha precedenti nella storia recente. Le riforme della giustizia, della concorrenza, del fisco, degli appalti... A oggi, tutti gli obiettivi dei primi due semestri del Pnrr sono stati raggiunti».
- La postura internazionale «Abbiamo reagito con assoluta fermezza all'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. La condanna delle atrocità russe e il pieno sostegno all'Ucraina hanno mostrato come l'Italia possa e debba avere un ruolo guida all'interno dell'Unione Europea e del G7».
- L'emancipazione energetica «Ci siamo mossi con grande celerità per superare l'inaccettabile dipendenza energetica dalla Russia. In pochi mesi, abbiamo ridotto le nostre importazioni di gas russo dal 40% a meno del 25% del totale e intendiamo azzerarle entro un anno e mezzo».
Ma il momento decisivo è stato quando Draghi ha spiegato le cose che bisognerebbe fare ora. E quelle che bisogna evitare. Qui sono arrivate le stoccate ai partiti. Più alla Lega che ai 5 Stelle, francamente.
- La riforma della concorrenza «Tocca i servizi pubblici locali, inclusi i taxi, e le concessioni di beni e servizi, comprese le concessioni balneari. Il disegno di legge deve essere approvato prima della pausa estiva».
Taxi e concessioni balneari da non liberalizzare sono due classici pallini leghisti. E non a caso Draghi ha fatto un duro riferimento alle piazzate di Salvini accanto ai tassisti più agitati: «Ora c'è bisogno di un sostegno convinto all'azione dell'esecutivo, non di un sostegno a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza di governo». - La riforma del Fisco Il premier ha ribadito l'intenzione di «ridurre le aliquote Irpef a partire dai redditi medio-bassi; superare l'Irap; razionalizzare l'Iva».
Poi ha aggiunto: «In Italia l'Agenzia delle Entrate-Riscossione conta 1.100 miliardi di euro di crediti residui, pari a oltre il 60% del prodotto interno lordo nazionale – una cifra impressionante». Come dire: altro che cartelle esattoriali da condonare, come vorrebbe Salvini. - L'agenda sociale Nell'elencare le misure a favore di cittadini e imprese, sia sul lavoro sia sulla crisi energetica, Draghi ha detto: «Quest'anno, l'andamento della finanza pubblica è migliore delle attese e ci permette di intervenire, come abbiamo fatto finora, senza nuovi scostamenti di bilancio».
Anche qui, un evidente no a Salvini che nei giorni scorsi aveva chiesto uno scostamento di 50 miliardi da mettere «nelle tasche degli italiani».
E i grillini? Con loro Draghi era stato duro ma non troppo. Aveva giusto spiegato a Conte che «non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, impossibile da ignorare, contenere o minimizzare». Aveva però salvato il reddito di cittadinanza — «una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro» — e anche il salario minimo: «A livello europeo è in via di approvazione definitiva una direttiva sul salario minimo, ed è in questa direzione che dobbiamo muoverci». Poi, una lezione garbata sul rigassificatore di Piombino, contestato dai 5 Stelle ma «fondamentale per la sicurezza nazionale». Solo sui superbonus, nel discorso di replica dopo gli interventi, Draghi si è acceso: «Il problema sono i meccanismi di cessione. Chi li ha disegnati senza discrimine o discernimento? Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto e tirare fuori dai guai quelle migliaia di imprese». E i partiti come l'hanno presa? Punto per punto, partito per partito, la mappa è questa.
- Lo spaesamento di Conte All'ex premier, che è il disegnatore dei superbonus, la critica del successore è parsa insopportabile: «Abbiamo visto da parte di Draghi non solo indicazioni generiche, purtroppo su alcune misure c'è stato anche un atteggiamento sprezzante. Questo ci dispiace molto perché abbiamo ricevuto anche degli insulti».
Ma il problema di Conte è che ieri ha fatto il primo test di irrilevanza: doveva essere la sua giornata, ma fino a tarda sera è stato zitto e nessuno è sembrato accorgersene.
Il «capo politico» dei 5 Stelle non ha affatto risolto lo scontro interno che rischia di portare a nuove scissioni; ha fatto prevalere ancora una volta l'avversione e l'inferiority complex nei confronti di Draghi sulla freddezza strategica; ha promesso al Pd di votare la fiducia e poi passare all'appoggio esterno ma si è rimangiato la parola. Come leader barricadero è già braccato da Di Battista, come leader istituzionale è ormai improponibile. - L'asse Salvini-Berlusconi Il leader leghista si è mosso in totale sintonia con l'anziano alleato, «mai così subalterno» secondo Massimo Franco. Mentre Draghi parlava, Salvini frenava i leghisti che accennavano ad applaudire, e li si è capito che era finita. La richiesta a Draghi di un nuovo governo era consapevolmente irricevibile.
Se dal punto di vista dell'interesse nazionale la scelta di Salvini è discutibile, sul piano politico ha una logica. Ha messo fine al gioco di Giorgia Meloni unica oppositrice, e da oggi parte la sfida all'alleata-rivale. Su tutto: ripartizione dei collegi e leadership della coalizione. Che può voler dire Palazzo Chigi.
E Berlusconi? Ieri ha incassato l'addio a Forza Italia di Mariastella Gelmini, che covava da tempo e ieri è esploso con tanto di lite tra la ministra e la sua arcinemica Licia Ronzulli, sempre più potente nel cerchio magico che bada al capo (Gelmini: «Contenta ora che hai mandato a casa il governo?». Ronzulli: «Vai a piangere altrove e prenditi uno Xanax»).
Quello che conta è cosa farà lui, il capo. Di certo si muove, come sempre, con logiche da imprenditore: vuole esercitare la golden share sul centrodestra e sembra saldo nell'appoggio a Salvini. Ma Paolo Mieli, ieri sera su La7, invitava a non trascurare il segnale lanciato dal suo alter ego Fedele Confalonieri, che nell'intervista dei giorni scorsi ad Aldo Cazzullo lo ha invitato a «puntare sulla Meloni. È lei che può riportare il centrodestra a Palazzo Chigi». - Meloni, appunto La leader di Fratelli d'Italia ha avviato il countdown decisivo della sua carriera: tra due mesi e mezzo potrebbe essere la prima donna e la prima rappresentante del postfascismo italiano a presiedere un Consiglio dei ministri. Infatti ieri ha esultato: «La storia ci ha dato ragione. Abbiamo avuto tre governi diversi, tre maggioranze diverse. Ce ne è uno che ha funzionato? No».
È proprio così? Il governo Draghi non ha funzionato? Meloni ha fatto bene a non contribuire al difficile sforzo dell'unità nazionale e a speculare sulle sue inevitabili difficoltà? L'Italia vivrà il paradosso di un governo apprezzato dalla maggioranza dei cittadini ma seguito da uno guidato dalla sua unica oppositrice? La coalizione di centrodestra reggerà alle rivalità? Sono le domande chiave delle prossime settimane. - Il campo stretto del Pd Dopo avere provato fino all'ultimo a fargli votare la fiducia, ora anche Enrico Letta è invelenito con Conte, che indica non solo tra gli «affossatori» del governo, ma anche come il salvatore di Salvini: «Aprendo la crisi ha evitato che Salvini, che era in crisi lui, venisse messo sotto dai suoi».
Ora un'alleanza con i 5 Stelle è semplicemente impensabile. Al Pd non resta che intestarsi l'«agenda Draghi», ma dovrà scegliere tra l'avventura solitaria nei collegi e un'intesa con i suoi scissionisti di questi anni, Calenda e Renzi, che vantano il primato del filo-draghismo. - L'agenda Draghi, appunto «Draghi lascia la scena, ma in campagna elettorale il suo nome sarà quello più citato», prevede Francesco Verderami. «Si vedrà se il centrodestra sconterà un dazio elettorale per essersi cointestato l'offensiva finale contro il governo di unità nazionale».
Oltre al Pd, ci conta la variopinta galassia centrista, che sperava di avere più tempo per definirsi. Grandi problemi di incompatibilità, però: tra Di Maio, Renzi e Calenda, tra Renzi e Calenda stessi. Con l'incognita Toti: ha voglia di sganciarsi dal centrodestra ma in Liguria guida una giunta di centrodestra. Per tutti, la speranza di ricevere una benedizione elettorale da Draghi. Potrebbe valere tantissimi voti. |